III.2 - RIFLESSIONI MANDALICHE III.2.1 - Il màndala

III.2 - RIFLESSIONI MANDALICHE
III.2.1 - Il màndala

- C.G. Jung così inizia a descrivere cosa sono i màndala: «La parola sanscrita màndala significa in generale “cerchio”. Nell’ambito delle pratiche religiose e nella psicologia essa designa immagini circolari che si possono disegnare, dipingere, modellare plasticamente o tracciare danzando. Immagini plastiche di questo tipo si riscontrano in special modo nel buddhismo tibetano; come figure di danza esse sono eseguite nei monasteri dervisci; come fenomeni psicologici affiorano spontaneamente nei sogni, in certi stati conflittuali e nella schizofrenia. Molto spesso i màndala contengono una quaternità o multiplo di quattro nella forma di croce, stella, quadrato, ottagono... Nell’alchimia questo motivo ha assunto la forma della quadratura circuli». (Titolo originale: Mandalas. Scritto per: Du, Schweizerische Monatsschrift (Zurigo), vol. 15, N. 4, 16-21 (1955), datato “gennaio 1955”. Il numero della rivista era dedicato alle sessioni “Eranos” ad Ascona e all’opera di C. G. Jung. L’articolo era illustrato con riproduzioni di màndala).
- Ho iniziato nel 1969 a studiare la filosofia indiana antica e mi sono subito ho realizzato ogni anno, sistematicamente, uno o più màndala, con le tecniche artistiche più diverse: pittura, monotipia, calcografia, mosaico e altre.
- «Le parole non mi aiutano molto a spiegare cosa significa fare un màndala: è una realtà che non può essere tradotta in qualsiasi altra forma di espressione che non sia quella derivante dalla presenza stessa del màndala realizzato. Le parole possono cercare d’illustrare l’architettura tecnica che negli anni ho edificato, quale strumento operativo (e nel mosaico questo è, forse, più aderente): le parole possono anche elencare quello che rifiuto e non accetto, come artista e come persona; alla fine, rimandano inevitabilmente alle opere e solo queste sono state e sono la mia guida». Questo testo si riferiva ad una mostra di màndala a mosaico del 1995.
- In seguito ho rallentato l’attività artistica e quella espositiva, e il mio personale concetto di màndala ha generato una variabile sempre più coinvolgente. Vero è che il màndala è una proiezione geometrica del mondo, un cosmogramma, e questa è la sua parte esterna, superficiale. Il mio màndala diventa uno psicocosmogramma, lo schema della mia rappresentazione umana. I miei màndala (e personalizzo ancora) sono il risultato di una ritualità individuale, non seguono i dettami precisi e perfetti dei maestri buddhisti. Le lunghe e dettagliate descrizioni fatte (ad esempio) da Giuseppe Tucci (Teoria e pratica del Màndala) non mi appartengono se non per il rigore formale degli adempimenti da compiere. In stretta relazione con questo rigore formale (sostanziale però solo quando si deve applicare alla dottrina buddhista) ho perfezionato (in un tempo che sembra sempre più dilatarsi) una mia liturgia che mi fa accedere a dei livelli complessi di “fare arte”.
- Non mi sono mai considerato veramente un “artista”, la considerazione altrui spesso sembrava confermare questa definizione assoluta facendo riferimento immediato ed esclusivo alle opere da me prodotte, tralasciando (e non poteva essere altrimenti tutto il “resto”. Una volta che le esperienze di apprendimento delle tecniche artistiche e artigianali hanno raggiunto un livello soddisfacente tale da poter produrre opere “definite” d’arte si è sviluppata ancor più in me una propensione ad “osservare”. Questa già esisteva sin dall’infanzia ma ad un certo punto si è sdoppiata, è diventata esigente e nel contempo prepotentemente necessaria, vitale.
- E questo è il “resto” che ho molte difficoltà a definire, posso semplicemente concludere questo accenno al concetto di màndala ricordando la decisione di riprendere a Nocera Terinese (nel giro di 24 ore) tutto quello che era possibile riprendere, con le mie disponibilità psico-fisiche e professionali dell’epoca.
- “Fare arte”, “osservare il di fuori e il di dentro”, un cerchio ed io mi sistemo nel “centro” e la doppia “osservazione” è costretta a diventare e a trasformarsi in un màndala seguendo un rituale rigorosamente personale. Una realtà bidirezionale ed io, in qualità di “artista”, mi scopro a vagare in un cerchio, puntellandomi incerto alla ricerca della stabilità, punto centrale.
- “Stare in mezzo alla realtà”, e persevera il senso di inadeguatezza nello spiegare con parole questa che è diventata una mia lente “speciale”, verso fuori e verso dentro. Le opere (màndala, video, etc.) ne sono il risultato comunemente definito “artistico”.
- C’è parecchio di “sacro” in questo, come c’è moltissimo di sacro nel rito di autoflagellazione, ma non mi occuperò (nel caso di Nocera Terinese) dell’aspetto sacro legato strettamente agli ordinamenti della religione cristiana.
- Dopo le riprese video raccontate nelle pagine precedenti, sono tornato più volte a Nocera per completare tutti gli aspetti del rito di autoflagellazione. Il “mio” vattente è diventato un mio amico, ma non per questo è stato più facile aggiungere tasselli di conoscenza alla prima esperienza. Ho conosciuto antropologi, video-operatori, fotografi, alcuni molto “navigati” nel cogliere sottigliezze di comportamento ed evidenze particolari (con la scrittura e con le immagini), altri più superficiali nel cogliere solo gli aspetti folcloristici, quasi inconsapevoli cronisti di un evento.
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